"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

sabato 20 dicembre 2014

THE BUTLER E 12 ANNI SCHIAVO - Un confronto


Nell'America di Barack Obama, il problema razziale è ben lontano dall'essere risolto. Lo dimostrano le attuali vicende di cronaca, caratterizzate dai lunghi cortei di protesta che sembrano riportarci indietro nel tempo, ma che invece parlano di oggi. E pur partendo dal passato parla di oggi (e all'oggi) anche il cinema, che negli ultimi due anni ha sfornato pellicole inerenti proprio al tema dei diritti civili o a quello della schiavitù. Da The Help di Tate Taylor, al Lincoln di Steven Spielberg; dal tarantiniano Django Unchained, ai due film ( tratti da storie vere) che lo scorso anno hanno commosso il pubblico statunitense: The Butler- Un Maggiordomo alla Casa Bianca di Lee Daniels e 12 anni schiavo di Steve McQueen. Due opere differenti ma al contempo simili, che andrebbero viste l' una dopo l'altra.
12 anni schiavo, è la storia di Solomon Northup (tratta dalla sua autobiografia datata 1853), uomo di colore nato libero, che nel 1841 viene rapito e venduto come schiavo. Per i dodici anni successivi lotterà contro la crudeltà dei padroni bianchi per rimanere vivo e tornare dalla propria famiglia.
La lotta per la “sopravvivenza” accomuna Solomon a Eugene Allen (The Butler), il “negro” nato nelle piantagioni di cotone che, divenuto eccellente cameriere, approderà alla Casa Bianca dove lavorerà per più di trent'anni (dal 1957 al 1986) come maggiordomo, servendo ben sette presidenti. Ma sempre con la speranza nel cuore che arrivi l'uomo giusto in grado di cambiare le sorti della sua gente. La battaglia di Eugene ( il nome nel film è stato cambiato in Cecil Gaines) è una rivoluzione silenziosa, umile. Per questo motivo si scontra spesso con il figlio Louis, deciso invece a combattere nelle strade a fianco di Martin Luther King prima e con il movimento delle Pantere Nere poi. Solomon invece, pur sopportando anche lui a testa bassa, spesso mostra il suo carattere forte, a tratti arrogante, in quanto incapace di accettare la sua condizione di schiavo. Lui che prima, da talentuoso musicista, godeva di una vita di privilegi.
Due uomini diversi dunque consapevoli però del fatto che, per sopravvivere, devono restare invisibili. L'uno pensando solo a servire il Presidente (“Tu non vedi niente, non senti niente. Devi soltanto servire”), l'altro nascondendo il fatto di essere un uomo istruito (“Lavora e parla meno che puoi”). Solo così Solomon riabbraccerà la sua famiglia. E Cecil, garantirà benessere alla sua. Evitando la sofferenza che aveva subito lui da bambino nei campi di cotone.
Al termine della visione dei due film però, appare chiara una netta differenza tra i due protagonisti. Mentre Cecil comprende l'importanza della protesta a voce alta del figlio Louis più volte osteggiato, decidendo infine di protestare al suo fianco e di lasciare “le catene” della Casa Bianca, Solomon al contrario non sembra cambiato dalla terribile esperienza subita. Egli rimane immobile, immutato. Le didascalie a fine pellicola ci informano che il vero Solomon, una volta tornato libero, si batterà per l'abolizione dello schiavismo. Ma il Solomon cinematografico non sembra essere pronto per questa battaglia. E' lo stesso uomo che abbiamo incontrato all'inizio del film. In questo 12 anni schiavo manca il bersaglio, non bucando lo schermo ma lasciando lo spettatore a contemplare un quadro bellissimo e crudele ma apparentemente senza profondità. Spettatore, che forse è più toccato dalla storia di Cecil, la cui perseveranza, verrà alla fine premiata con l'elezione a Presidente di Barack Obama (per sua stessa ammissione, il giorno più bello della sua vita). The Butler, pur celebrando enfaticamente il suo protagonista, ha anche il pregio di farlo senza eccessiva retorica.
Difficile comunque non commuoversi per le sorti di questi due uomini. In questo i due registi afroamericani Steve McQueen e Lee Daniels non mancano il colpo. E non sbagliano neanche la scelta del protagonista. Forest Whitaker (Cecil) è magistrale nel regalare emozioni solo con uno sguardo. Altrettanto bravo Chiwetel Ejiofor (Solomon) con un'interpretazione solida e intensa. E il resto dei cast non è da meno. Entrambi ricchi di nomi forti, in The Butler i cinque presidenti hanno tutti il loro giusto spazio (dal compianto Robin Williams nei panni di Dwight Eisenhower, al camaleontico Alan Rickman in quelli di Ronald Reagan) La menzione speciale però va a Oprah Winfrey, qui moglie devota di Cecil.
In 12 anni schiavo invece, a farla da “padrone” è Michael Fassbender (attore feticcio di McQueen), interprete del negriero spietato e compulsivo, Edwin Epps. Da segnalare le ottime prove di Paul Dano, Benedict Cumberbatch, Paul Giamatti e il piccolo (ma importantissimo) cameo di Brad Pitt, qui anche produttore.
Palesemente confezionati per gli Oscar 2014 , tra i due a spuntarla è stato 12 anni schiavo che si è portato a casa ben tre statuette ( miglior film, miglior sceneggiatura non originale e miglior attrice non protagonista, andato a Lupita Nyong'o), Per The Butler nemmeno una nomination ( io l'avrei data almeno a Forest Withaker).
Quale sia il miglior film tra i due, ognuno lo giudicherà a modo suo. Personalmente consiglio la visione di entrambi per l' importanza della tematica, vista da due originali prospettive ( il nero libero divenuto schiavo, e il “negro di casa”), e perché si tratta comunque di opere ben girate e recitate.
Se è vero però che il film più bello è quello che ti rimane negli occhi, nelle orecchie e nella mente ancora molto tempo dopo la visione, di loro mi rimane ben poco. Di The Butler, la grandissima umiltà del suo intenso protagonista (bello poi rivedere Forest Withaker insieme a Robin Williams, per chi come me ha amato Good morning, Vietnam !). Di 12 anni schiavo, le splendide ( e crude ) immagini pittoriche illuminate dalla fotografia di Sean Bobbitt, nonché il bellissimo spiritual “Roll Jordan Roll”, cantato con tutta la disperazione possibile da Chiwetel Ejiofor.
Poco o tanto che sia, per l'importanza dei temi trattati, qualcosa in più sarebbe stato gradito.

Guarda il trailer. The Butler-Un maggiordomo alla Casa Bianca


Guarda il trailer. 12 anni schiavo: https://www.youtube.com/watch?v=8PQYQ_Cfz0U





lunedì 17 novembre 2014

AMERICAN HUSTLE-L'APPARENZA INGANNA ( di D.O.Russell,2014)

Un cast all-star. Una colonna sonora coinvolgente. Una storia di truffa e raggiri godibilissima. Il regista newyorkese David O. Russell raduna tutti gli attori con cui aveva già lavorato e realizza (probabilmente) la sua miglior pellicola.
Fine anni '70. New Jersey. Con l'operazione denominata “Abscam”, l' F.B.I decide di incastrare alcuni membri del congresso per corruzione avvalendosi all'aiuto di due sedicenti truffatori, Irving Rosenfeld e Sydney Prosser. Ma neanche l'agente più astuto, ambizioso e senza remore Richie DiMaso, può intuire con chi il bureau ha veramente a che fare.
Liberamente tratto da un noto fatto di cronaca, American Hustle ( dopo il pluri-premiato Argo di Ben Affleck) è un' opera che partendo dalla realtà mette in scena la finzione. La finzione che ha radici nel reale, nella vita di tutti i giorni. La finzione di quella maschera che tutti noi mettiamo per sopravvivere.
La gente crede a quello che vuole credere”, è la frase più ripetuta nel film. E il suo tema centrale.
Ad una prima visione, ciò che colpisce in quest'opera è che tutto è palesemente sopra le righe ma allo stesso tempo molto credibile. A partire proprio dalle caratterizzazione dei personaggi, dove il team di attori dimostra tutto il suo talento.
L'abilissimo truffatore Irving Rosenfeld è un Christian Bale appesantito e con un riporto “piuttosto elaborato”.Seppur sotto tutto quel “posticcio”, le qualità dell'attore traspaiono.
Il premio Oscar Jennifer Lawrence è Rosalyn, sua moglie. Casalinga annoiata, viziata e apparentemente svampita, si rivelerà però una vera mina vagante. Ruolo insolito per la Lawrence che, nonostante la sua giovane età (evidente dai suoi dolci lineamenti), dimostra doti da attrice consumata con tanto di “cofana” bionda.
Bradley Cooper è perfetto per Richie DiMaso, l'agente dell' F.B.I ambizioso e sicuro di sé che la sera, a casa con la madre, riempie la sua testa di bigodini rosa per sfoggiare tanti bei ricciolini.
Jeremy Renner ( new entry alla corte di David O.Russell) interpreta Carmine Polito, il sindaco ingenuo che crederà all'amicizia di Irving. Nonostante l'improbabile capigliatura, Renner non sfigura.
Ma la vera star è lei, Amy Adams, interprete di Sidney Prosser, qui mai così sexy e tormentata. La sua scaltra e intrigante Sidney è forse il personaggio più vero di tutto il film. E la Adams dimostra di saper aderire ai ruoli più diversi. Meritata la sua vittoria ai Golden Globe come attrice protagonista.
Seppur breve, di grande effetto infine l'apparizione di Robert De Niro ( che aveva già lavorato con Russell ne Il Lato Positivo) nei panni del sicario Victor Tellegio.
Ancora una volta Russell si dimostra quindi un regista di attori, che con lui vincono Oscar (Bale e Lawrence) o comunque ottengono la nomination (Cooper e Adams). Qui però a supportarli c'è un' ottima sceneggiatura che non disdegna humour e colpi di scena, contornata da scenografia e costumi che non passano inosservati. Anch'essi rispecchiano infatti il clima artefatto e fortemente kitsch che, nelle realtà, hanno caratterizzato gli anni '70. Anni dai quali è stata tratta una splendida colonna sonora che vede, tra gli altri, brani di artisti come Led Zeppelin, Elton John, Steely Dan, Bee Gees e Harold Melvin & The Blue Notes.
Chi scrive non era rimasta particolarmente colpita da The Fighter e da Il Lato Positivo ( a mio modesto parere, più interessante il primo del secondo), i precedenti e premiati lavori di David O. Russell. Ma ( come direbbe Leonardo DiCaprio in Django Unchained), se con quei film aveva suscitato la mia curiosità ora, con American Hustle, ha la mia attenzione.



Due brani tratti dalla bella colonna sonora:
-Led Zeppelin "Good Times Bad Times": https://www.youtube.com/watch?v=NQ1zpwVBK4M
-Steely Dan "Dirty Work" : https://www.youtube.com/watch?v=ghcsrblhn7A




martedì 28 ottobre 2014

LO HOBBIT.LA DESOLAZIONE DI SMAUG (di P. Jackson, 2013)

Il viaggio inaspettato di Bilbo con i 13 nani capitanati da Thorin Scudodiquercia, riprende.
Lasciata l'atmosfera più leggera del primo capitolo, il cammino dei nostri continua in maniera più cupa. Bilbo inizia ad intuire il potenziale dell'anello, ma da esso è soggiogato. Il fiero Thorin, da parte sua, mostra il suo lato oscuro dominato da un'infida avidità che lo accomuna al suo potente rivale ed usurpatore del trono Smaug, l'immenso drago dormiente. L'avidità è infatti il tema principale del film. Avidità che coinvolge i protagonisti (Bilbo compreso) rendendoli ciechi e pronti a sacrificare chiunque si metta tra loro e il tesoro.
Peter Jackson prosegue il suo personale adattamento del romanzo Lo Hobbit di J.R.R.Tolkien producendo un sequel che presenta gli stessi pregi e difetti del primo capitolo. La prima cosa che salta all'occhio è la lunghezza. Ancora una volta il regista realizza una pellicola di ben due ore e quaranta dove l'attesa del momento più alto (l'incontro con il drago Smaug) è fortemente dilata, e a tratti indispone un po' lo spettatore. Decisamente pedanti i continui rimandi alla “vecchia” trilogia. E' risaputo che Jackson, per adattare un libretto di poco più di 300 pagine con tre film di quasi tre ore l'uno, ha introdotto personaggi e situazioni non presenti nel romanzo. A questo si aggiungono rimandi, allusioni ai suoi precedenti lavori che mettono un po' a dura prova la pazienza dello spettatore. Il personaggio totalmente inventato di Tauriel, l'elfo silvano al servizio di Re Thranduil, sovrano di Bosco Atro, è pretesto per una fugace storia d'amore tra lei e il giovane nano Kili. Passione che però non può non ricordare quella già vista tra Arwen e Aragorn. Forzato anche il ritorno di Legolas ( un Orlando Bloom la cui mascella squadrata tradisce il fatto che tra la due trilogie son passati ben dodici anni! ), che da Tauriel è affascinato.
Fin qui i difetti, ma i pregi? Beh....Jackson e la talentuosa squadra della Weta Digital sanno, anche in questo caso, farsi perdonare; con scenari visivamente perfetti, scene d'azione mozzafiato e personaggi che non si dimenticano.
La sequenza che vede i nostri persi, disorientati nel Bosco Atro rappresenta forse la parte più cupa del film, con l'attacco dei ragni giganti (qualcuno al cinema sarà sicuramente saltato sulla poltrona!) e l'abisso profondo in cui Bilbo inciampa.
Molto divertente la fuga dei nani dalle prigioni elfiche all'interno di alcuni barili lanciati giù nel fiume tra le rapide. Fuga resa ancora più dura dall'attacco degli orchi, a loro volta disturbati dall'esercito degli elfi.
E infine lui...il drago Smaug. Splendido il suo svelamento dallo sconfinato oceano di oro e gemme. Un drago realizzato in motion capture che ha le espressioni e la voce profonda di Benedict Cumberbatch (quella italiana è di Luca Ward ), lo Sherlock dell'omonimo serial TV. Set che condivide proprio con Martin Freeman (qui Bilbo, là Watson). Il pregio di Smaug è che non ricorda nessun altro drago sullo schermo. Più simile forse ad una creatura di Jurassic Park, ci riporta subito nel mondo del fantastico con quel petto che si accende di rosso prima di sputare fuoco.
Oltre a Smaug, tra i nuovi personaggi spicca Bard (interpretato da Luke Evans- prossimo Vlad III di Valacchia in Dracula Untold e probabile futuro Eric Draven nel remake de Il Corvo), contrabbandiere di Pontelagolungo dal passato oscuro, che prima presterà aiuto alla compagnia di nani e poi si opporrà alla loro impresa. La sua è una presenza di peso che avrà un ruolo centrale nel prossimo capitolo. Al contrario dell'elfo Tauriel (interpretata dall'ex Lost, Evangeline Lily), personaggio apparso fin troppo superficiale.
Divertente infine il cammeo di Stephen Fry, crapulone governatore di Pontelagolungo.
Insomma, anche sta volta, nonostante lo sforzo di pazienza, ne vale la pena. E il regista (non pago!) ce ne chiede ancora un po'. Manca infatti l'ultimo capitolo: Lo Hobbit. La Battaglia delle cinque armate. L'appuntamento è per il prossimo 17 Dicembre.
Ancora un ultimo sforzo poi....è finita!
Forse. 




lunedì 13 ottobre 2014

GRAVITY (di A. Cuarón, 2013)

Nello spazio non c'è nulla che trasporti il suono. Lassù, a circa 600 km dalla Terra, il silenzio regna sovrano. E in quella quiete, sospesi, gli astronauti Ryan Stone e Matt Kowalsky si godono un panorama unico. E' una situazione alla quale ci si potrebbe abituare, pensa la Dottoressa Stone, ingegnere biomedico in prestito alla NASA, con il compito di intervenire nella manutenzione del telescopio Hubble. Ad accompagnarla nella missione il comandante Kowalsky alla sua ultima passeggiata spaziale. All'esterno dello Shuttle, mentre stanno per ultimare il lavoro, una pioggia di detriti causata dalla collisione tra un satellite e un missile, travolge i due astronauti e danneggia gravemente lo Shuttle. L'equipaggio all'interno non sopravvive mentre Stone e Kowalsky restano soli alla deriva, senza poter nemmeno comunicare con la base di Houston. Ciò che segue sarà una disperata lotta per la sopravvivenza in uno dei luoghi più ostili che esistano.
La miglior fantascienza anni '70 incontra lo sci-fi degli anni 2000 creando un film unico nel suo genere. Il regista messicano Alfonso Cuarón mescola la filosofia di 2001 Odissea nello spazio con gli scenari spettacolari di Apollo13 realizzando una storia epica, tipicamente americana che non offre nulla di nuovo allo spettatore se non una mise en scène per nulla scontata e super efficace nel catturare l'attenzione.
Il film si apre con un lunghissimo piano sequenza della durata di ben 19 minuti. Prosegue poi con scene molto lunghe, dove il montaggio è appena percettibile. Questo permette di tenere lo spettatore totalmente incollato allo schermo. Egli non viene distratto ma interamente inglobato in un perpetuo movimento che gli consente di vivere emozioni, sensazioni e respiri della protagonista femminile, la Dottoressa Ryan Stone. Spesso sembra di essere con lei nelle tuta da astronauta.
Molto interessante anche il lavoro fatto sul sonoro. Nelle scene dove ci si aspetterebbe forti e fragorose esplosioni di suoni metallici, si viene invece colpiti da un “sonoro” silenzio, il silenzio tipico, quasi ovattato, dello spazio. Per tutta la durata della pellicola il regista gioca con il contrasto rumore/silenzio. La quiete prima piacevole si trasforma in un inquietante compagno di viaggio. I suoni terrestri (voci, musica, rumori), che prima sembravano disturbare la vista magnifica del Pianeta Blu, diventano poi fonte di conforto per chi, lassù, sta disperatamente cercando di tornare a casa.
Più efficace la prima parte delle seconda (separazione sottolineata dalla rinascita, fisica e spirituale, della protagonista - suggestiva la scena in cui Ryan, all'interno della navetta, si rannicchia in posizione fetale-) il film corre veloce verso il finale ( dura appena un'ora e mezza) inciampando però un po' nel retorico. Si esagera nell'ultima parte, inficiando la sospensione dell'incredulità dello spettatore che fino a quel momento era totalmente coinvolto nella vicenda. Il rischio era dietro l'angolo, ma è un peccato che si può perdonare.
Realizzato per l'80% in computer grafica ( quattro anni di lavorazione), il film vede un cast di appena sei elementi (di cui tre solo voce). Nei panni dei protagonisti George Clooney (il comandante Matt Kowalsky) e Sandra Bullock (Dottoressa Ryan Stone). La fisicità e il look della Bullock ricordano quelli di Ellen Ripley, protagonista della saga di Alien (quasi un must per qualsiasi regista voglia approcciarsi alla fantascienza). La tristezza dei suoi occhi (ha perso una figlia) si scontra con il chiacchiericcio spiritoso di Kowalsky, un George Clooney sempre efficace nell'alleggerire l'atmosfera, e qui forza motivatrice per la Dottoressa a non mollare.
All'ultima edizione dei premi Oscar, Gravity si è aggiudicato ben 7 statuette. Oltre alle evidenti qualità tecniche, è stata premiata la regia di Alfonso Cuarón. Al suo ottavo lungometraggio, il regista messicano ottiene quel riconoscimento che forse avrebbe meritato già con I figli degli uomini; altro sci-fi (questa volta distopico) la cui forza non era tanto nella tecnica ma bensì nella sceneggiatura, firmata dallo stesso Cuarón. Una pellicola con un ritmo ben diverso (lento e meno coinvolgente), ma che non può passare inosservata. 
Lo stesso vale per Gravity. Al contrario di quanto pensano in molti, la fantascienza al cinema non è ancora morta.





martedì 23 settembre 2014

JOBS ( di J.M. Stern, 2013)

Arrogante, egoista , anticonformista, ribelle. Ma anche visionario, genio, guru. Per chi l'ha conosciuto e per chi oggi ripete come un mantra il suo famoso discorso ai folli ("Siate affamati. Siate folli." ), Steve Jobs è stato (ed è) tutto questo.
Ed il film di Joshua Michael Stern, uscito in Italia lo scorso 14 Novembre 2013, in questo non manca l'obbiettivo.
A partire dal 1974, quando era solo un giovane hippie senza aspirazioni precise, fino al 1994, anno in cui si riappropria della sua creatura (la Apple Computer), il film ci mostra tutte le sfaccettature del visionario ribelle. Il ventenne Steve Jobs è egoista con gli amici (non divide equamente il primo denaro guadagnato grazie all'amico ingegnere-e futuro cofondatore della Apple- Steve Wozniak ), non vuole responsabilità familiari (negherà per anni una paternità) ma ha già ben chiara la sua visione, e per realizzarla non guarderà in faccia nessuno. Una volta ottenuto il successo non lo condividerà con il primo gruppo di giovani con i quali tutto era iniziato nel garage della famiglia Jobs. Continuerà a cercare nuovi collaboratori che possano dare il massimo e che, come lui,vedono il futuro. O si è con lui, o si è contro di lui. Ma così facendo arriveranno, inevitabili, frustrazioni e delusioni. “Tu sei il peggior nemico di te stesso. E di questa azienda”, gli dirà John Sculley mentre prenderà il suo posto di amministratore delegato della Apple . Eppure, quando gli verrà chiesto di tornare , Jobs ancora una volta non avrà scrupoli e, per “cambiare il mondo” , metterà nuovamente da parte chi lo aveva aiutato a partire.
In poco più di due ore di pellicola vengono condensati vent'anni della vita del genio informatico (dagli anni '70 agli anni '90, con l'unica eccezione delll'incipit dedicato al lancio dell'IPod nel 2001), senza mai approfondire alcun momento particolare. Certo, probabilmente non era facile scegliere su quale parte della vita del nostro focalizzarsi. Regista e sceneggiatore (Matt Whiteley) hanno quindi puntato sulla personalità di Jobs, ma anche in questo caso il film corre veloce verso il finale senza soffermarsi su nessun aspetto di quella personalità tanto difficile e complessa. La ferita di un figlio abbandonato -Jobs era infatti stato adottato- la sua “fame”/ fretta di successo, il suo egoismo nel lavoro e nella vita, il suo essere contro tutto e tutti si sviluppano come une mero elenco privo di approfondimenti. Lo spettatore fatica a riconoscere in quella descrizione tanto superficiale l'uomo di cui si sentirà parlare per generazioni e generazioni.
A poco è valso l'impegno di Ashton Kutcher nel calarsi nei panni del guru che camminava nel mondo a piedi scalzi. Seppure la somiglianza fisica sia indubbia, la recitazione di Kutcher è tutta improntata quasi esclusivamente sullo sguardo. Ma i suoi occhi scurissimi, spesso inquadrati in dettaglio dal regista, non bastano a restituire la complessità di uno come Steve Jobs.
Più convincenti invece e i comprimari Josh Gad ( Steve Wozniak ) e Dermot Malroney ( Mike Markkula). Nonchè le partecipazioni eccellenti di Matthew Modine ( John Sculley), J.K.Simmons (Arthur Rock ) e ( in un piccolo ruolo) di James Wood.
Un'occasione mancata dunque. Una personalità cosi unica e tanto amata meritava decisamente di più.
Ma tranquilli, perché la “fame” cinematografica per la vita di Steve Jobs non si è ancora esaurita. Si parla già di un altro biopic con protagonista l'ormai super-esperto del genere Leonardo DiCaprio. Vedremo.
Nel frattempo vi consiglio di recuperare un altro film su un “folle” che ci ha cambiato la vita:The Social Network di David Fincher, incentrato su Mark Zuckerberg e la rivoluzione Facebook.
Un'opera acuta dove, a fare la differenza, non sono gli occhi di un attore belloccio ma dialoghi serrati e pungenti.




sabato 12 luglio 2014

SAVING MR.BANKS ( di J.L.Hancock, 2014)





Dimenticate “la storia vera dietro il mito”. Dimenticate Tom Hanks, primo attore ad interpretare Walt Disney sullo schermo. Certo, Saving Mr.Banks è anche tutto questo. Ma soprattutto è una storia di narratori. Una storia che parla di sentimenti ed esperienze nascoste dietro la penna (o la matita!) dell'autore. E dell'opportunità di condividerle.
Aprile 1961. La scrittrice P.L.Travers lascia a malincuore la sua cara Londra per recarsi a Los Angeles ad incontrare Walt Disney. In seguito ad una promessa fatta alle figlie, Disney ha tentato per vent'anni di convincere la signora Travers a cedergli i diritti dei suoi libri per farne un film. La protagonista di questi libri è la tata più amata del mondo, Mary Poppins. Convinto ormai di averla finalmente persuasa, il Re Mida dell'intrattenimento si troverà davanti una donna risoluta e testarda, determinata a far si che i suoi personaggi non vengano fagocitati in un mondo frivolo e canterino. Niente parole inventate-niente canzoni-niente cartoon -e no, assolutamente no Dick Van Dyke, sono le sue richieste ( ve lo immaginate Mary Poppins senza tutto questo??) Per lo sceneggiatore Don DaGradi e i fratelli Bob e Rick Sherman (rispettivamente paroliere e musicista) le due settimane di collaborazione con la Travers saranno un inferno. Per non parlare di zio Walt incapace (proprio lui che ha dato gioia a generazioni di bambini e di adulti)) di far felice quella donna tanto ostinata. Ma anche la scrittrice verrà messa a dura prova. La Travers infatti, costretta per mere questioni economiche a scontrarsi con un mondo che proprio non le piace, verrà sopraffatta da tristi ricordi. Le calde e opprimenti notti californiane la riporteranno nell'Australia del 1906 dove, bambina, faceva i conti con una realtà difficile e troppo grande per lei. Una bambina che ora indossa la maschera di donna austera e che si auto-infligge una vita fatta solo di privazioni e niente gioie.
Pur prendendosi qualche libertà rispetto agli eventi reali (pare che Disney avesse già ottenuto i diritti quando la Travers arrivò a Los Angeles), il regista John Lee Hancock ( che di favole se ne intende – sue infatti le sceneggiature di Un mondo perfetto, Biancaneve e il Cacciatore e il recente Maleficent), confeziona una storia commovente e divertente in pieno stile Disney. Si ride nel vedere i più stretti collaboratori di Walt in imbarazzo come bambini di fronte alla “maestrina” Mrs. Travers; si sorride dei dialoghi tra lei e il suo impertinente ma dolce autista Ralph; e inevitabilmente ci si commuove dinnanzi alla sua triste infanzia segnata da u padre sognatore ma dedito all'alcool e da una madre fragile. Ma ancora di più ci si emoziona quando Walt Disney, parlandole da narratore a narratore, la persuaderà a condividere i suoi personaggi con lui e con il mondo e, con l'immaginazione, a riportare equilibrio e speranza nelle loro vite e in chi guarderà il loro film. Come ogni buon storyteller sa e deve fare.
L'intero film ( dalle scenografie alle musiche) è tutto un omaggio al mondo Disney, a quell'impero della magia creato da Walt ormai quasi novant'anni fa.
A partire da Tom Hanks che nell'interpretare Walt Disney gli restituisce sensibilità e carisma, senza cadere però nell'elogio ruffiano del mito. Dal film traspare infatti (seppur in maniera velata) anche un Walt abbindolatore e sicuro di sé, leggermente autoritario e fumatore (di nascosto dai suoi sottoposti!) che dispensa autografi prestampati e che non permette si discutano alcune sue decisioni ( un Mr.Banks baffuto fu una sua imposizione). Hanks come al solito non delude e aggiunge al suo lungo curriculum un'altra ottima performance.
Buoni anche i comprimari Bradley Whitford (Don DaGradi), Jason Schwartzman (Rick Sherman) e B.J. Novak (Bob Sherman).
Ma la mia preferenza va a Paul Giamatti. Con quella faccia da cartone animato, ci regala un'interpretazione intensa come non si vedeva da tempo. Nei panni di Ralph, l'autista che accompagna Mrs.Travers nel suo soggiorno losangelino, scambia battute sincere e malinconiche con l'acida scrittrice. Il loro rapporto ricorda quello tra Jessica Tandy e Morgan Freeman in A Spasso con Daisy. Ralph, come Hoke, è l'unico a scalfire il cuore della scontrosa signora.
Peccato invece per Colin Farrell ( giovane padre di Pamela bambina) intrappolato in un ruolo sopra le righe che non lascia emergere il suo talento.
Chi invece merita il plaudo è Emma Thompson. La brava attrice inglese che interpreta la ruvida Mrs.Travers è in grado con uno sguardo di restituirci tutte le contraddizioni di una donna complicata, dura con sé stessa e con gli altri ma al contempo sensibilissima e fragile. A mio parere meritava almeno una nomination all'Oscar.
Il film è piacevole. Sentimentale sì ma non retorico o melenso (appena appena un poco di zucchero che non guasta!) Unica pecca forse i continui flash-back che ci raccontano della scrittrice bambina. Seppur funzionali per la comprensione della storia in alcuni punti appesantiscono un po' il filo del racconto. Per il resto è un opera che si lascia guardare senza le pretese del capolavoro, ma perfetto per chi al cinema ama sognare, ridere e commuoversi con sensata leggerezza .
Un piccolo consiglio: rivedetevi Mary Poppins appena prima (o almeno subito dopo!) della visione di Saving Mr.Banks. Solo così potrete apprezzare al meglio dialoghi, immagini e altri dettagli che alludono al grande film del 1964. 




 

martedì 19 marzo 2013

FRANKENWEENIE (di T. Burton, 2013)



Rapporto burrascoso quello tra la Disney e Tim Burton.
Un rapporto senz’altro di rispetto ma mai di completa comprensione. Un rapporto iniziato nel 1979 quando un giovanotto di Burbank appassionato di disegno (e formatosi alla Cal Arts) viene assunto nella fabbrica dei sogni della Disney, allora un faro per chiunque volesse lavorare nell’animazione. Il nostro giovane però si trova ben presto in un mondo che gli va stretto. Burton infatti prova un forte disagio a disegnare graziosi animaletti (era tra gli animatori di Red e Toby -Nemiciamici) e il suo personale stile non è compreso da tutti. I pochi che lo sostengono gli permettono comunque di muovere i suoi primi passi nell’animazione a passo uno e nel live-action. Ma la Disney (che negli anni ’80 attraversava un periodo di transizione e di confusione in merito alla direzione che la casa di Topolino doveva prendere), pur riconoscendone il talento, non riusciva a  trovare una collocazione idonea ai suoi lavori. Tra queste opere, anche quel piccolo capolavoro che fu  Frankenweenie.
Cortometraggio di 25 minuti, Frankenweenie (uscito nel 1984) non convinse le allora “alte sfere” della Disney che lo classificarono PG (Parental Guidance, cioè per minori accompagnati da un adulto) e lo relegarono in archivio in quanto non poteva (sempre secondo i fedelissimi di zio Walt) accompagnare la riedizione prevista per quell’anno di Pinocchio.
In seguito all’ennesima frustrazione Burton lasciò la Disney e per sua (e nostra!) fortuna, grazie proprio agli eventi che seguirono la lavorazione di Frankenweenie, divenne il visionario cineasta che oggi tutti conosciamo e ammiriamo.
A distanza di quasi trent’anni il buon Tim decidere di riprendere quel particolare progetto, realizzando forse uno dei film più personali della sua carriera.
Il giovane Victor Frankenstein è un ragazzino solitario amante della scienza il cui unico amico è il suo cagnolino, Sparky. Quando quest’ultimo muore in un incidente stradale, Victor decide di riportarlo in vita grazie agli insegnamenti del nuovo professore di scienze, il Sig. Rzykruski. Riuscito nel folle esperimento, Victor dovrà però proteggere il suo fedele amico dalla paura e diffidenza degli abitanti del piccolo paese.
In questo film è racchiusa tutta l’idea di cinema di Tim Burton. La sua filosofia, le sue passioni ma anche le sue emozioni e il suo essere uno spirito libero.
In Victor non è difficile riconoscere un giovane Tim Burton, un ragazzino solitario amante del cinema horror che vive nell’avan-posto hollywoodiano di Burbank dal quale vorrebbe volare via. Victor vive infatti in una cittadina di provincia che, seppur in bianco e nero, non è altro che la Burbank dagli inquietanti colori pastello di Edward Mani di Forbice, altro alter-ego burtoniano.
In Frankenweenie è espressa la forte passione di Burton per il cinema horror, in particolare quello degli anni ‘30 e degli anni '50. Da Frankenstein (di James Whale) a Godzilla passando per La moglie di Frankenstein (sempre di Whale), gli omaggi e rimandi a quel cinema espressionista si sprecano. Nelle fattezze del Sig. Rzykruski poi, si possono riconoscere quelle di Vicent Price idolo del nostro regista e protagonista del cinema horror anni ’50 (uno per tutti La maschera di cera) e ’60 (interpretò una serie di film tratti dai racconti di Edgar Alan Poe), che proprio con il nostro regista aveva stretto un forte rapporto di amicizia e che concluse la sua carriera nel 1993 interpretando il padre-inventore di Edward Mani di Forbice.
Ed è proprio in  Edward che io trovo con Frankenweenie i maggiori contatti. Teneri, malinconici e gustosamente horror, queste due opere riescono a restituire al meglio l’interiorità di questo regista non convenzionale ed originale che ha incantato una generazione.
Profondamente curata e raffinata l’animazione in stop-motion scelta da Burton (nel 1984 il film fu girato in live-ction). Già sperimentata in Nightmare before Christmas e La sposa cadavere, qui la tecnica acquista un valore aggiunto nel restituire creature e atmosfera di un cinema ormai lontano ( un po’ lo stesso risultato ottenuto da Martin Scorsese in  Hugo Cabret con uno spettacolare 3D). Una dichiarazione d’amore di Burton al cinema, palesata fin dalla prima sequenza di Frankenweenie dove Victor mostra ai suoi genitori un piccolo film (horror, ovviamente) girato da lui stesso in super8 (ma da vedere con gli occhiali 3D!) con protagonista il suo amato cagnolino Sparky. Anche il film del 1984 iniziava nello stesso modo, e già in quell’opera si poteva riconoscere le caratteristiche tipiche di Burton, allora un regista in erba di ventisei anni che tentava di esprimere il suo mondo. Un mondo che forse solo ora è riuscito a restituire al meglio, dando libero sfogo alle sue passioni senza preoccuparsi di assomigliare a qualcuno o di ripetere sé stesso. Una libertà che allora non gli era ancora permessa.
Da quel 1984 di acqua ne è passata sotto i ponti e con la Disney è ormai pace fatta. Frankenweenie ( nomination  all’ Oscar 2013 per il miglior film d’animazione) è distribuito proprio dagli studios del magico castello, la Walt Disney Pictures ( già co-produttrice nel 2010 di  Alice in Wonderland ).
Da questo eterno scontro-incontro tra due mondi apparentemente lontani non c’è che da aspettarsi (incrociamo le dita!) altre meraviglie. 



Per chi fosse interessato, ecco il corto del 1984 : http://www.youtube.com/watch?v=HWRB-VqKPJs